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L'ILLUSIONISTA
(L'ILLUSIONISTE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 marzo 2011
 
di Sylvain Chomet, lungometraggio d'animazione da una sceneggiatura di Jacques Tati (Francia, 2010)
 
Ricordate la prodigiosa immaginazione di LES TRIPLETTES DE BELLEVILE, il primo film di Sylvain Chomet, l'originalità dell'allucinazione grafica, l'umorismo del nonsenso surreale, la riflessione e poesia straniante? E i suoi riferimenti cinefili, quelli grafici, coreografici e musicali: un piccolo prodigio memorabile, che il cineasta francese riesce miracolosamente a replicare. Ma non solo: andando a scovare una sceneggiatura inedita di Jacques Tati del 1955, ricreandola a uso e consumo del proprio disegno animato, sommando al mitico universo estetico e poetico del grande comico la propria concezione “postmoderna” dell'animazione (il ritorno al disegno piatto del 2D in epoca delle alchimie ormai abusate del 3D computerizzato), riesce un'operazione quasi sfrontata e di estrema originalità.

Non solo lo spasso di un'osservazione sempre irresistibile, non solo l'omaggio al mondo cosi particolare di MONSIEUR HULOT; ma un viaggio autonomo, satirico e quasi filosofico, divertito, ma tenero e melanconico. Che finisce per riferirsi, certo, all'inimitabile dimensione artistica di Jacques Tati: ma che ricorda tutte le poetiche nelle quali la risata ha saputo farsi riflessione, prima fra tutte quella di Chaplin. E se il film racconta di un maturo e ovviamente imbranato illusionista francese, costretto a trasferirsi fino in Scozia per esibirsi nel precariato delle sale semi-deserte dei vecchi music-hall, del suo incontro fra i musicisti del pub con la servetta che condurrà fra le chimere luccicanti di Edimburgo, il tono che conta è quello che Tati avrebbe adorato. La crudeltà del tempo che sgretola il capitale di conoscenze dei brav'uomini di buona volontà; la diffidenza, e i rischi dello scoramento, quando il modernismo mostra i suoi lati più caduchi e derisori.

Se la prima parte del film è magistrale nella sua corrosiva, tragicomica introspezione (indimenticabile il protagonista che attende per ore dietro le quinte del teatro, riprovando all'infinito i propri trucchi; mentre sul palco rotolano i chitarristi rock, davanti al pubblico di teenager che non si rassegna alla loro partenza), la sceneggiatura che segue magari langue un pochino, quasi rispecchiasse il disincanto che invade i personaggi. Ma la ricchezza sfrenata degli sfondi (il film andrebbe rivisto, tanti sono i dettagli che arrischiano di sfuggire), il cesello del tratto, la raffinatezza delle luci, la precisione esaltante dell'ambientazione, la dinamica contemporanea delle musiche alimentano infinitamente l'intelligenza e la grazia indimenticabile del film.


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